L’ultimo cavaliere (La Torre Nera I)


Il primo libro della saga “La torre nera” di Stephen King può essere riassunto attraverso il suo straordinario incipit: “L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì”. Chiaramente succedono delle cose, lungo questo inseguimento che si dispiega per 224 pagine, ma non sto qui a ripercorrerle. Inizio col dire che questo primo capitolo non mi ha entusiasmato, ma è noto che nei successivi libri della saga King raggiunge le vette a cui ci ha abituati e dunque credo ne valga la pena. Semmai, come sempre mi accade quando leggo il Re, questo romanzo ha dato il via a tutta una serie di pensieri che vorrei fissare nella presente nota prima che fuggano via.

Vorrei iniziare la mia riflessione con Dante, o meglio con Ezra Pound. Nei suoi Cantos (per la precisione, nel canto 91) il poeta americano riprende due versi dell’Inferno (per la precisione, il canto 26, vv. 34-35) isolandolo dal contesto in cui è inserito e dunque modificandone il significato: “Convien che si mova la mente, amando”. Pound suggerisce che dobbiamo muoverci nel mondo sorretti dall’amore, il quale, solo, può offrire la migliore direzione al nostro movimento (mentale e fisico). Perché ho deciso di partire da qui? Perché L’ultimo cavaliere è una discesa dantesca negli inferi, ma in questo caso il protagonista, il pistolero Roland, sembra muoversi senza il lume dell’amore (“sconvolto e solo, avviluppato dalla tenebra”). Da un certo punto di vista, il pistolero ricorda un capitano Ahab che si ostina in modo demoniaco a inseguire la sua preda, un leviatano non già bianco, bensì vestito di nero.

Qualcuno potrebbe obiettare: il pistolero dà prova di amore, o comunque di gentilezza, tenerezza e cura nei confronti degli altri. Giusto, ma la domanda decisiva è la seguente: quanto amore è disposto a sacrificare pur di raggiungere la sua preda? A mio avviso, Roland è deciso a sacrificarlo per intero; per questo motivo mi ha fatto pensare a Ahab e alla sua folle caccia.

C’è una canzone dei Baustelle (L’amore è negativo) che in qualche modo tocca questo tema del sacrificio (negli ultimi due versi): “Non sacrificare Isacco a Dio, salva tuo figlio muori al posto suo”. Ricordo che Abramo ottenne la salvezza nel momento in cui decise di uccidere il figlio. Se ci spostiamo sul versante greco, Edipo invece ottenne la dannazione per aver ucciso il padre. (Sarebbe interessante a questo punto riflettere sul rapporto tra generazioni, e dunque sul rapporto con il passato e con il futuro, che queste storie ci comunicano, ma evito di farlo.) Dal canto suo, Roland incarna sia la figura di Edipo che quella di Abramo: egli è un uomo che, come Abramo, sacrifica (non dico chi o cosa, ma si tratta di un oggetto d’amore) e che per questo si danna come Edipo. Inoltre sappiamo che in seguito alla rivelazione dell’orrore che ha compiuto, Edipo si cava gli occhi: egli si rifiuta di vedere il mondo che le sue azioni hanno modellato. Ebbene, tutto questo discorso (piuttosto contorto, lo ammetto) mi è servito per giungere qui: all’oscurità, alla mancanza di luce, al rifiuto stesso della luce, perché certe cose è meglio non vederle. Nemmeno immaginarle.

Ci sono cose che non si possono immaginare, per quanto ci si sforzi: provate a immaginare un “cerchio quadrato”, oppure un triangolo con quattro lati. Non è possibile. 

Ci sono poi pensieri che non dovrebbero essere pensati e che invece pensiamo. “Se ti dicessero che a pensare di vedere tua madre nuda finisci all’inferno (così avevano detto una volta al pistolero, quand’era piccolo), va a finire che lo fai. E perché? Perché non vuoi immaginare tua madre nuda. Perché non vuoi andare all’inferno. Perché avendo un coltello e una mano con cui impugnarlo, alla lunga il cervello mangia se stesso. Non perché voglia farlo, ma perché non vuole farlo”.

Infine, ci sono pensieri che in linea di principio potrebbero essere pensati, perché non violano alcuna essenza o definizione universale, pensieri che in apparenza sembrano innocui, pensieri che una persona potrebbe voler pensare, ma a cui non riesce pensare, perché, in qualche modo, si trovano al di fuori del guscio nel quale tale persona si è rinchiusa (ad esempio, ci sono persone che non riescono a immaginarsi felici, tanto temono di poterlo non essere). Credo che ognuno di noi abbia fatto esperienza (almeno una volta) di una simile impotenza nel corso della propria vita, ma non è mia intenzione fare psicologia (non ne ho le competenze) e dunque non insisto. Pertanto, ritorniamo a Roland.

ATTENZIONE: questo potrebbe essere uno SPOILER! (Non ne sono sicuro, ma è meglio avvisare.)

A un certo punto della storia, il pistolero si troverà a dover guardare l’impossibile, un “cerchio quadrato” (ossia la struttura del mondo nel quale è ambientato il romanzo): 

“La dimensione ci sconfigge. Per il pesce, il lago in cui vive è l’universo. Che cosa pensa il pesce quando viene agganciato per la bocca e strappato ai confini argentei dell’esistenza e trasferito in un universo nuovo dove l’aria lo annega e la luce è un’azzurra follia? Dove giganteschi bipedi senza branchie lo buttano in una scatola soffocante e lo ricoprono di erbe bagnate per lasciarlo morire?” E ancora: “Se tu cadessi ai limiti dell’universo, troveresti forse uno steccato e un cartello con la scritta FINE? No. Potresti trovare forse qualcosa di solido e concavo, come deve essere la vista del suo guscio da parte del pulcino dentro l’uovo. E se dovessi rompere anche tu quel guscio (o trovare una porta), quale luce possente e torrenziale vedresti brillare attraverso il tuo varco alla fine dello spazio?”

D’altra parte, Roland si troverà a dover guardare anche al proprio mondo interiore, quello rinchiuso in un analogo guscio. Il guscio che, se si prova a colpirlo con un coltello, finisce col deviare il colpo e a indirizzarlo mortalmente verso l’interno. Il guscio che ha indurito il suo cuore, sebbene egli sia gentile e capace di tenerezza, impedendogli di muoversi amando e obbligandolo al sacrificio che lo renderà cieco. Perché sì, fare i conti con se stessi significa trovare un modo per rompere il guscio, rinunciare alle tenebre che ci difendono e fare entrare una luce che ferisce. Significa essere strappati dalle acque come un pesce. Insomma, significa guardare in faccia al personale cerchio quadrato. Riuscirà Roland a rompere il guscio e a sopravvivere alla “azzurra follia”? Riuscirà a completare la discesa negli inferi e a risalire a rivedere le stelle? Qui vi lascio nel dubbio.

FINE (possibile) SPOILER.

Probabilmente quelle che ho scritto sono soltanto speculazioni e magari col proseguo della lettura dei libri successivi verrò smentito. Ma il bello della lettura (almeno per quanto mi riguarda) è che essa mette in moto i pensieri, porta a interpretare e creare associazioni di idee (anche improbabili). E nel caso in cui non si abbia colto nel segno, che problema c’è? Simili viaggi mentali sono comunque un premio (o un dono, se si preferisce). Per questo motivo, non vedo l’ora di tuffarmi nel secondo libro di questa saga. Ci ritroveremo qui quando ne sarò riemerso e vediamo quali conchiglie avrò raccolto.


(25/05/2025)

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