L’unica storia


"L'unica storia", nel suo significato generale, è la storia d'amore che segna la vita di ogni individuo: quella storia (non importa se lunga o corta, felice o infelice) che plasma l'esistenza di chi la vive e che si eleva a modello (positivo o negativo) che va a condizionare ogni altra storia (non solo d'amore). In questo caso specifico (il romanzo di Barnes), abbiamo un ragazzo di diciannove anni (Paul), che vive con i propri genitori in un sobborgo londinese, e una donna di quarantanove anni (Susan), sposata, con due figlie. Temporalmente ha tutto inizio nei primi anni Sessanta.

C'è un verso di "Time" dei Pink Floyd che dice "Hanging on in quiet desperation is the English way". Ecco, questa (unica) storia narra del tentativo di sganciarsi dalla quieta disperazione propria del modo d'essere inglese. L'esito non è meno disperante, ma almeno risponde a una decisione, a una scelta di sé. A questo proposito (parlo del coraggio di decidere la propria "storia"), c'è un passo in cui Paul riflette sul modo in cui le relazioni finiscono, o meglio: non finiscono (pur essendo giunte a una fine). Le relazioni a cui Paul fa riferimento sono quelle dei propri genitori, amici, compreso il matrimonio di Susan. Per lo più si tratta di relazioni "scadute" che si trascinano, anno dopo anno, in una serie di gesti meccanici, parole vuote, silenzi ostili. Ora, cosa impedisce a questi rapporti esauriti di terminare? Perché gli attori di un simile sceneggiato (questa moglie stanca e risentita, questo marito infelice e insoddisfatto) non riescono a liberarsi dal loro copione? Cosa impedisce loro di spezzare i vecchi legami, il rapporto sclerotizzato che li immobilizzano? Forse a calcificare queste esistenze è una sorta di attaccamento a un mondo di abitudini al quale, per quanto esso sia insopportabile, non si vuole rinunciare (in fondo, ci sono persone che si affezionano alle proprie malattie). Magari ci provano a uscire da quel mondo, ma poi si arrendono, e vi fanno ritorno.

«In vita mia mia ho visto amici incapaci di sganciarsi da un matrimonio, di proseguire una relazione, a volte perfino di avviarla, e tutto per la stessa identica ragione. "Nella pratica, non funziona", dicevano rassegnati. Troppo lontano, troppo scomodi i treni, incompatibili gli orari di lavoro; e poi c'è il mutuo, ci sono i figli, c'è il cane; e i beni in comune. "Non ce l'ho fatta a dividere la collezione di vinili", mi disse una volta una moglie che aveva deciso di non andarsene. Nell'euforia dell'amore, i coniugi avevano messo insieme i rispettivi dischi e buttato via i doppioni. Non era fattibile tornare indietro. E così lei rimase; e dopo un po' la tentazione di andare via svanì e la collezione di vinili poté tirare un sospiro di sollievo.»

Quando mi trovo a pensare all'incapacità di oltrepassare il proprio mondo abituale, il primo riferimento letterario che mi viene in mente è "Revolutionary Road" di Richard Yates. Qui abbiamo un marito e una moglie che a un certo punto prendono coscienza che la loro relazione è sprofondata nel gorgo della quotidianità. Comprendono che devono decidere che cosa fare di loro stessi: continuare a lasciarsi vivere, perché in fondo è più comodo, oppure rivoluzionare la propria esistenza, disfarsi dei cadaveri ai quali si sono legati e ricostruire su nuove basi il proprio matrimonio. A dispetto del titolo di questo romanzo, la rivoluzione non si compie: "Revolutionary Road" è la storia di una "rivoluzione" mancata.

Nel caso dell'"Unica storia", invece, abbiamo la rivoluzione: Susan lascia il marito per andare con Paul; Paul taglierà i rapporti con i genitori (i quali, da bravi borghesi, non comprendono come un ragazzo di diciannove anni possa innamorarsi di una quarantanovenne sposata). Entrambi faranno i conti con la propria pre(i)storia per dare forma a una storia "unica". D'altra parte, non siamo nel regno delle favole: sganciarsi dalla "quieta disperazione" del quotidiano non significa guadagnare la beatitudine. Barnes mantiene sempre uno sguardo lucido, a volte sin troppo cinico, sull'esistenza:

«Non mi rendevo conto che Susan era spaventata dentro. Come avrei fatto a immaginarlo? Pensavo di essere il solo. E adesso, tardivamente, capisco che riguarda tutti. È una condizione insita nella mortalità. Disponiamo di un codice di comportamento teso ad alleviarla e minimizzarla, battute, consuetudini e innumerevoli altre forme di distrazione. Ma dentro ciascuno di noi alloggia il terrore, un caos pronto a esplodere allo scoperto, ne sono convinto. L'ho visto ruggire fra i moribondi, come l'estrema protesta contro la condizione umana e la sua cronica infelicità. Ma è presente anche nel più equilibrato e razionale di noi. Bastano le circostanze adatte, e salterà fuori senz'altro. E allora, saremo alla sua mercé. Lo spavento conduce alcuni a Dio, altri alla disperazione, altri ancora alle opere di bene, altri al bere, alcuni all'amnesia evotiva, altri infine a una vita passata a sperare che nulla di serio verrà mai più a disturbarli.»

L'amore tra Susan e Paul non genera soltanto felici dinamiche rigenerative (la creazione del loro mondo personale), ma [ATTENZIONE SPOILER] diventa la penosa struttura attraverso il quale uno dei due (non dico chi) finisce per assistere all'auto-dissoluzione dell'altro (e qui si apre un problema che angoscia il "sopravvissuto": quanto è "auto" questa dissoluzione se avviene entro un rapporto? quante colpe abbiamo quando un nostro caro si distrugge? o forse ci sono casi in cui siamo davvero impotenti e per questo non responsabili di tale distruzione?). [FINE SPOILER] Comunque sia, si tratta di una storia "unica", che, se non garantisce alcuna beatitudine o salvezza, almeno si eleva sul piano della autenticità, nella misura in cui Susan e Paul decidono di non diventare "abitatori di solchi", ossia di infilarsi in una di quelle "nicchie" predisposte dal civile mondo là fuori che ci vuole mettere a posto.

Non mi dilungo oltre. Chiudo con una osservazione sulla struttura del romanzo. Questo si divide in tre parti (che abbracciano cinquanta anni della vita di Paul): la prima parte è scritta in prima persona; la seconda è scritta (perlopiù) in seconda persona; la terza... in terza persona. Scelta interessante, perché le tre parti riflettono anche il coinvolgimento dell'io narrante: dalla esaltazione della prima persona, ovvero della soggettività, si passa al misurato distacco della seconda persona, e infine alla lucida analisi della terza persona (che pretende di essere più distaccata dalle vicende e dunque oggettiva).


(05/01/2019)

Commenti

Post popolari in questo blog

L’ultimo cavaliere (La Torre Nera I)

La sfera del buio (La Torre Nera IV)

La chiamata dei tre (La Torre Nera II)