Facciamo che ero morta


Continua la serie di letture felici offerte dalla penna di un'autrice donna. Questa volta si tratta di Jen Beagin, giovane scrittrice americana, il cui passato da "cleaning lady" viene ripreso e diventa occasione per dare forma a questo romanzo, il quale narra le vicende di una ventiquattrenne che per guadagnarsi da vivere fa le pulizie e che per dare un minimo senso alla propria esistenza fotografa il proprio corpo nelle case in cui lavora e colleziona oggetti inutili che raccoglie giorno dopo giorno. Se dovessi isolare una frase che funga da chiave di lettura della storia, sceglierei questa (si tratta di un pensiero che balena nella mente della protagonista, Mona, quando conosce un ragazzo di nome Gesù [si chiama proprio così]):

"Gesù era uno dei pochi fortunati che escono dall'infanzia integri: il suo passato non era una massa immobile e sconfinata con un microclima a parte."

Il titolo del romanzo si riferisce a un gioco che Mona faceva da piccola: fingere di essere morta. Non viene detto esplicitamente in queste pagine, ma mi pare che l'essere morta, da gioco, sia diventato il modo di esserci nel mondo di Mona, la quale si è sottratta alla vita sin da bambina a causa di oscure vicende legate al suo rapporto con i genitori, in primis col padre. Vicende "oscure" perché sono tali per la stessa protagonista, la quale tenerà di fare chiarezza del proprio passato attraverso continue (e continuamente interrotte) telefonate al padre. 

Mona è una ragazza che non è uscita integra dalla propria infanzia; una ragazza che galleggia a morto sull'esistenza; una ragazza a pezzi che, per superare la perdita del suo unico amore (un eroinomane col doppio dei suoi anni, morto suicida), decide di trasferirsi (ma sarebbe più corretto dire che viene sospinta da una sorta di destino o da un'intima intuizione) dal Massachusetts a Taos, un piccolo paese sperduto nel deserto del New Mexico; e qui ha modo di entrare in contatto con altre "solitudini" (composte da singoli o da coppie). In effetti il romanzo ha questa particolarità: è costellato da una moltitudine di solitudini, che si avvicinano le une alle altre, sfiorandosi, per poi riallontanarsi a debita distanza. Un altro aspetto interessante è che, pur non essendo un romanzo famigliare, la figura della famiglia è sempre presente: in primis quella di Mona, che la segue nei modi del trauma; quindi le famiglie invisibili che Mona incontra ogni volta che va a fare pulizie -- famiglie sulle quali la protagonista proietta i guasti della propria. Questo a ribadire che le lenti attraverso le quali osserviamo il mondo ci sono date entro l'ambito famigliare in cui veniamo "formati".

Il risultato è un intreccio di solitudine, incomprensione, distacco dalla realtà, un lasciarsi trasportare dagli eventi, quasi si attendesse da questi un significato che, tuttavia, continua a sfuggire.

Un'opera prima gradevole, ma non un capolavoro.


(26/03/2019)

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