L’occhio del monaco e il letto di Wittgenstein


Perché non ci lasciano in pace, i morti?
Spargono i loro nomi sulla strada
su cui dobbiamo camminare, insinuano i versi
delle loro poesie nell'ultimo sonno prima del mattino

e poi di nuovo se ne vanno, assenti come
fosse una professione, volgendosi altrove, senz'occhi,
nascosti dentro il loro gergo, il dialetto
che i morti parlano tra loro, a noi
inaccessibile, razza senza passaporto
né voce che irrompe nella nostra memoria
senza preavviso, ci cammina accanto
si siede sul bordo del letto in cui
un tempo si stendevano.

(Cees Nooteboom, "L'occhio del monaco", tr. it. di Fulvio Ferrari, n. 27)


L'immagine dei morti che si accostano al bordo del letto, quel letto dal quale sono scivolati via morendo, mi pare possa essere vista come un affacciarsi dei morti sul mondo. Un mondo-letto. Quel mondo che, per dirla con Wittgenstein, coincide col linguaggio, per cui «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (Tractatus logico-philosophicus, 5.6). Per questo i morti che sono scivolati via dal letto su cui un tempo si stendevano, quei morti che sono pertanto fuoriusciti dal mondo, parlano un dialetto «a noi inaccessibile». E tuttavia, là avviene l'incontro. Se manca la parola (il discorso sensato) non c'è il nulla, bensì il "Mistico"; una presenza che, nel tentativo di descriverla, ci fa produrre non-sensi che si riferiscono non alla realtà dura (il mondo dei fatti), ma a un nostro modo di sentirci esistere. Per Wittgenstein una frase ha senso solo se ci possiamo raffigurare come potrebbe essere se fosse vera ("Sul tavolo c'è un gatto", è un esempio di proposizione sensata che può essere o vera o falsa); mentre si ha un non-senso quando non è possibile dire, di una proposizione, né che è vera né che è falsa, semplicemente perché non ci è possibile raffigurare una tale immagine. In questo caso ci siamo scagliati contro i limiti del linguaggio, o detto diversamente: ci troviamo sul bordo del letto. Un esempio di frase insensata è quella che si trova in un'altra poesia di Noteboom (in cui ricorre nuovamente l'immagine del letto): «Un dio faticoso sul bordo del mio letto» (OdM, n. 1). Attenzione: frase insensata non significa frase priva di valore. Certamente essa non ha valore alle orecchie di chi, nel mondo (o al centro del proprio letto), ammette soltanto ciò che ha una chiara corrispondeza tra parola e cosa. Ma, e Wittgenstein lo sapeva bene, l'esperienza umana non può ridursi soltanto entro questo stretto nesso: «Credere in un Dio vuol dire che i fatti del mondo non sono poi tutto» (Quaderni, 8/7/1916).

Perché mi funziona particolarmente bene l'immagine del mondo-letto? Innanzitutto, perché mi rimanda a quella dimensione infantile in cui, realmente, esiste uno spacco tra il mondo al di qua e il mondo al di là del bordo-letto. I bambini avvertono la presenza di mostri (il Babau) sotto il proprio letto. Il bordo di questo è avvertito come luogo della "dolce angoscia", al quale i bambini si aggrappano quando sporgono la testa per vedere cosa c'è al di là (o meglio: sotto) di esso. Ma è anche il luogo dove indugiano i poeti, i creatori di miti, i tipi religiosi, che appunto, avvertono che «i fatti del mondo non sono poi tutto». Certo, qui lavora un'immaginazione eccitata, ma è appunto questa eccitazione, tutta umana, che testimonia un desiderio di trascendenza, una sorta di rivolta contro il "regno delle cose" (per citare Bataille). Insomma, quello del del monaco, mi pare, è un occhio che, simile a un faro («Non nella vita di tutti c'è posto per un faro, / ma nella mia sì», OdM, n. 3), scruta i limiti del linguaggio, ossia del mondo, in attesa che "qualcosa" si riveli. Dunque, se è vero che «Dio non rivela sé nel mondo» (Tractatus, 6.432), possiamo tuttavia avvertirne la presenza (così come quella di mostri e creature fatate) sui suoi bordi. Con timore e tremore.


(05/03/2019)

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