Cecità
Un errore in cui un filosofo può incappare è quello di elevare a universale il proprio sentire individuale. In questo caso, siamo di fronte a quello che può essere definito "psicologismo". Un esempio? La vita mi appare (appare A ME) senza senso e assurda, dunque, concludo che la vita è, nella sua universalità, senza senso e assurda. Per fare un esempio ancora più circonstaziato, una sentenza come "L'inferno sono gli altri" (Sartre) è filosoficamente irricevibile. Certo, posso capire che cosa vuol dire, e potrei anche farla mia, nella misura in cui gli altri mi fanno costantemente dei torti, mi feriscono con le loro azioni egoistiche, e così via. Ma sarebbe un errore, a partire dal mio caso individuale, asserire che il mondo è un regno di dolore e che l'umanità, nella sua generalità, non fa altro che esacerbare questo dolore. Sarebbe un errore, dico, se si tratta di emettere un giudizio universale sul mondo. Ma se si tratta di esprimere il proprio sentire individuale, allora va bene: gli altri mi fanno del male, per cui gli altri, per me, sono l'inferno. In effetti, dicendo questo, sto semplicemente parlando di me: del fatto che sono uno "scorticato", ossia che mi manca uno strato di epidermide sufficientemente spesso da resistere agli urti che giungono dall'esterno.
Veniamo a "Cecità" di Saramago. Questo romanzo parla di una misteriosa epidemia che si abbatte su una città (di cui non sappiamo il nome) facendo sì che tutta la popolazione, nel giro di pochi giorni, sia privata della vista. In particolare, la storia narra le peripezie di un gruppetto di persone che si trova nella necessità di far fronte a questi problemi: trovare riparo, mangiare, affrontare le violenze, etc., e in generale sopravvivere in un mondo che ha perduto ogni tipo di organizzazione sociale e che sembra essere sprofondato in uno stato di natura simile a quello descritto da Hobbes, regolato da una sorta di lotta di tutti contro tutti.
"Penso che siamo già morti, siamo ciechi perché siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché siamo ciechi, il risultato è lo stesso".
Ora, leggendo "Cecità" ho avuto l'impressione di trovarmi davanti un racconto dell'orrore, una sorta di storia con zombie che, tuttavia, funziona meglio di ogni altra storia con gli zombie, semplicemente perché se gli zombie non hanno nulla di umano, al di là del loro corpo, nel caso di "Cecità" abbiamo a che fare con esseri umani a tutto tondo. Non abbiamo corpi senza anima, ossia cadaveri, ma corpi che non vedono (in questo caso, c'è un solo cadavere: gli occhi che, aristotelicamente, perdendo la vista, non hanno più "anima"). In questo senso, se nel guardare un film con gli zombie tendiamo a non identificarci in essi (sebbene tali film parlino di noi), in "Cecità" tale mancata identificazione non è possibile: ci è presto chiaro che noi siamo i ciechi di cui il libro parla; ci è presto chiaro che siamo "morti".
Cosa significa essere morti? Nel romanzo ricorrono spesso delle spiegazioni su questa misteriosa cecità: "La paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi"; "Lottare [gli uni contro gli altri] è sempre stata, più o meno, una forma di cecità"; "La cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza". La cecità è disperazione, e la disperazione è la cifra dell'inferno. Per dirla con Dante, cieco è chi ha perduto "il ben dell'intelletto" e non sa amare. Non si contano gli episodi di incredibile violenza e di umiliazione attraverso i quali i protagonisti di questa storia sono costretti a passare (alcune pagine sono un vero pugno nello stomaco). Violenza e umiliazioni che giungono da mano umana. Ed è come se non ci fosse altro: non ci sono divinità malvage, non c'è una natura matrigna, ci sono solo esseri umani che, ciechi, si danneggiano a vicenda, secondo il motto "mors tua vita mea". Tale solitudine, ossia il fatto che in questo romanzo gli esseri umani sono rimessi a loro stessi, è rimarcata quando si scopre che qualcuno ha cancellato gli occhi a statue e dipinti, sia nei musei che nelle chiese, come a negare ogni rinvio alla trascendenza. Abbiamo quindi una riduzione dell'essere umano alla sua sola presenza biologica, nella misura in cui l'arte, la religione e l'etica sono ridotte ai minimi termini: in una simile società accecata, a contare è solo la pura sopravvivenza. Forse anche questo significa essere morti?
"Mors tua vita mea". Dunque è proprio così? L'inferno sono gli altri? Sopra ho fatto un riferimento a Hobbes, che, lo confesso ora, non è del tutto corretto. Saramago evita l'errore (cf. psicologismo) di rappresentare l'essere umano come un lupo che è mosso da un impulso egoistico; e così evita l'errore di rappresentarlo come una creatura angelica, naturalmente buona, che la società avrebbe corrotto. Certo, lo si è visto: gli episodi di violenza, la lotta cieca, la sopraffazione dei più deboli ad opera dei più forti, non mancano. Ma non mancano nemmeno episodi di solidarietà, di reciproco aiuto, prove d'amore incondizionato. Se è vero che la cecità consiste nell'aver perduto la speranza, questa speranza riluce, seppur debolmente, in alcuni personaggi. Ed è forse questa speranza il motore della storia. La speranza che l'umanità possa salvarsi dalla propria auto-estinzione. Che questa salvezza giunga da un dio, attraverso un atto di grazia, oppure dall'umanità stessa, non è ben chiaro. Propenderei per la seconda opzione, se si considera la solitudine di cui sopra; e tuttavia, c'è un episodio che potrebbe essere letto come un atto di grazia (non dico nulla per non spoilerare). Diciamo che, anche in questo caso, Saramago evita di cadere nello psicologismo (o nel fideismo) lasciando che sia il lettore a decidere sulla base del proprio intimo sentire.
Per concludere, posso affermare che "Cecità" è un libro "potente". Tra tutti i romanzi che ho letto, è sicuramente uno di quelli che meglio ci parlano del disgraziatissimo momento storico in cui stiamo vivendo. Avrei da ridire su alcune scelte stilistiche (alcune legittime, ad esempio quella di non segnalare con segni grafici i discorsi diretti, per cui è difficile individuarli in modo immediato) e su difetti per me non perdonabili (utilizzo di un narratore onnisciente con un punto di vista che vaga in modo incontrollato da un personaggio all'altro, anche nel giro di poche righe); ma di questo non voglio parlare perché si entrerebbe in discorsi "tecnici" che possono non essere interessanti (ma lasciatemelo dire: se Saramago avesse deciso di rinunciare al narratore onnisciente e avesse tenuto il punto di vista su un solo personaggio, penso alla moglie del dottore, "Cecità" sarebbe stato un romanzo perfetto. Ma vista la potenza della storia, va bene anche così, tanto di cappello comunque).
(30/07/2019)
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