Il vento selvaggio che passa


Qualche giorno fa ho finito di leggere "Il vento selvaggio che passa", il penultimo romanzo di Yates, pubblicato in USA nel 1984, e uscito in Italia solo quest'anno per i tipi di Minimum fax.

Il romanzo presenta i soliti temi yatesiani: la solitudine, la rivolta artistica alla vita borghese, il fallimento (della vita borghese, ma anche della rivolta artistica), l'abbandono e l'impotenza. In particolare, qui si percepisce un'idea che deve aver ossessionato Yates lungo tutto il corso della sua vita: la mancanza di talento. In effetti, dopo che ebbe pubblicato "Revolutionary Road", Yates non riuscì più a scrivere un romanzo che fosse all'altezza di questo incredibile esordio. Così, anche il protagonista de "Il vento selvaggio che passa", Michael Davenport, è uno scrittore (poeta) che non riesce a superare il suo primo componimento (intitolato "Vuotare il sacco"); intanto gli anni passano, Michael cade diverse volte, perde amici e persone amate, ma tutto sommato tiene botta e riesce sempre a rimettersi in piedi.

Già dai primi capitoli si intuisce che questo romanzo non è all'altezza di "Revolutionary Road"; e tuttavia, qua e là ci si imbatte in quei colpi di luce yatesiana (nel senso di disperata lucidità) che da soli giustificano la lettura. Tra i passi che mi sono segnato, ne riporto soltanto uno. A un certo punto della storia (mi mantengo vago per non spoilerare), Michael avverte che sua moglie non è più innamorata di lui. Lui teme di perderla (come ha già perduto altre persone nella sua vita), ed ecco che arriviamo al seguente dialogo telefonico:

"Lo so che stai benissimo. Ma io no. Anzi, sono un po' disperato. Voglio farti venire qui prima di..."
"Prima di che?"
"Prima di perderti. O magari ti ho già persa."
E gli parve incredibile che il suo silenzio durasse tanto a lungo. Poi lei disse: "È un'espressione un po' curiosa, non trovi? Una persona può perderne un'altra? Succede davvero?"
"Altroché se succede. Puoi scommetterci il culetto che succede."
"Sì, ma questo non sottintende anzitutto una condizione di possesso? E che senso avrebbe? Per conto mio preferisco credere che ognuno sia essenzialmente solo", disse lei, "e che perciò la nostra responsabilità primaria sia nei confronti di noi stessi. Dobbiamo farci la vita come meglio possiamo."
"Sì, beh, allora, guarda: non so che diavolo hai letto, ma non ho intenzione di sopportare altre stronzate femministe di questo genere, chiaro? Io sono troppo vecchio per questa roba. Sto al mondo da troppo tempo e ne ho viste troppe. Allora. C'è un'altra cosa importante che vorrei dire nel corso di questa deliziosa chiacchieratina. Vuoi starmi a sentire?"
"Certo."
"Non tantissimo tempo fa", cominciò, con una voce bassa, quasi teatrale, "mi hai detto che secondo te eravamo fatti l'uno per l'altra."
"Sì, me lo ricordo," replicò lei. "E nel momento in cui l'ho detto ho capito che tu me lo avresti ricordato, prima o poi."
Stavolta il silenzio fu tanto profondo che ci si sarebbe potuti affogare.
"Cazzo," fece lui. "Oh, cazzo." 

Devo dire che Michael è una persona che ispira pochissima simpatia. Ma giunto alla fine di questo dialogo, non ho potuto evitare di ripetere con lui: "oh, cazzo". 

PS. Non so se anche voi, come me, avete immaginato Leonardo DiCaprio recitare nella parte di Michael.


(03/08/2020)

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