L’inverno del nostro scontento


Questo romanzo non è il migliore di Steinbeck (difficile superare le vette di “Furore” e della “Valle dell’Eden”), ma è comunque una chicca che supera gran parte della roba che ho letto ultimamente. Se in “Furore” Steinbeck descrive la nostra società con lo sguardo degli “ultimi”, i quali sono costretti a una vita alienata che non permette loro di essere pienamente umani (anche se vi sono sempre dei margini, dei piccoli spazi in cui la loro umanità emerge, attraverso semplici gesti e parole); ne “L’inverno del nostro scontento” lo sguardo non è rivolto verso gli ultimi, bensì verso quella gente “di mezzo” nella quale la gran parte di noi si trova: la piccola-media borghesia. Qui si coglie un diverso tipo di alienazione che non è slegata dalla prima, e che consiste nel senso di fallimento che costantemente accompagna la nostra vita. Il senso di non avercela fatta, di essere rimasti indietro rispetto agli obiettivi che abbiamo interiorizzato, il senso di precipitare verso il basso, appunto verso gli “ultimi”. Un tipo di alienazione che ci porta a calpestare la nostra stessa umanità.

La storia narra la vicenda di Ethan Hawley, discendente di una ricca famiglia di balenieri caduta poi in disgrazia, che si è “ridotto” a lavorare come commesso in un emporio (che peraltro un tempo era di sua proprietà). Si tratta di un uomo generoso, onesto, ricco di amore per la sua famiglia, che vive la propria condizione alla luce di un fallimento che non riesce ad accettare. Così, spinto dai sensi di colpa (i figli e l’adorata moglie si lamentano di non essere abbastanza ricchi per condurre una vita “normale”) e da un disperato desiderio di riscatto (e di vendetta), inizia a ordire un piano fatto di imbrogli e tradimenti che, se lo porterà a riconquistare la ricchezza materiale e l’onore perduti, lo priverà di quella umanità che rendeva la sua vita degna di essere vissuta.


(27/04/2022)

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