Il paradosso della bontà


È da un bel po’ che non pubblico delle note di lettura. Rimedio segnalando una delle più interessanti letture di questo anno: “Il paradosso della bontà” di Richard Wrangham. Per quanto mi riguarda potrebbe essere una lettura da affiancare a “Genealogia della morale” di Nietzsche (oltre alle tesi sulla natura umana di Rousseau e Hobbes)… ma a parte questo, si tratta di un libro che aiuta a capire anche il mondo in cui viviamo.

Wrangham si concentra sulla natura complessa e contraddittoria dell'essere umano, che è frutto di un lungo processo evolutivo che ha plasmato comportamenti sia altruistici che violenti. Secondo l'autore, la nostra psicologia e le nostre inclinazioni sociali si sono sviluppate attraverso un'inedita combinazione di selezione naturale, cambiamenti ambientali e innovazioni cognitive, come l'introduzione del linguaggio.

In particolare, l'autore sostiene che l'evoluzione dell'uomo ha visto una progressiva diminuzione dell'aggressività reattiva, quella che scaturisce dalla risposta immediata a minacce dirette, grazie a un fenomeno che chiama "autodomesticazione". Questo processo è stato innescato circa 300.000 anni fa, quando l'Homo sapiens ha sviluppato la capacità di formare coalizioni tra individui subordinati per abbattere i maschi alfa, i leader dominanti. Il linguaggio ha svolto un ruolo cruciale in questa trasformazione, poiché ha permesso la comunicazione tra membri del gruppo, facilitando la cooperazione e l'eliminazione dei potenziali tiranni. Questa evoluzione ha ridotto la violenza diretta tra individui all'interno dei gruppi, ma ha anche permesso la formazione di alleanze che, pur portando vantaggi in termini di sicurezza, hanno creato nuove dinamiche di potere.

Tuttavia, l'autore sottolinea che questa diminuzione dell'aggressività reattiva non ha comportato una rinuncia alla violenza in sé. Infatti, l'aggressività proattiva, quella pianificata e mirata contro i "nemici" esterni, ha continuato a essere una costante nell'evoluzione umana. Gli esseri umani, pur sviluppando abilità di cooperazione e comunicazione, hanno mantenuto la capacità di formare coalizioni violente contro gruppi esterni, come dimostra l'antica pratica della caccia e delle guerre tribali. Il linguaggio, pur contribuendo alla cooperazione all'interno dei gruppi, ha anche facilitato l'organizzazione di aggressioni contro estranei, attraverso l'elaborazione di piani condivisi.

Un altro aspetto importante della tesi è il legame tra la capacità di applicare la pena capitale e l'emergere del senso morale. L'autore sostiene che l'evoluzione della giustizia sociale e della moralità, che oggi percepiamo come valori universali, è il risultato della necessità di proteggere i membri vulnerabili della società e di garantire l'ordine sociale. I trasgressori venivano puniti severamente, spesso con l'esclusione o l'esecuzione, per preservare la coesione del gruppo. Questo processo ha portato allo sviluppo di un senso morale che favorisce la cooperazione, la conformità alle norme e l'altruismo, beneficiando i gruppi che stabilivano e imponevano tali regole (secondo il precetto di Lucy van Pelt: “i buoni sono quelli che decidono chi sono i cattivi”).

In definitiva, l'autore propone una visione della natura umana come una "chimera": un insieme di tratti apparentemente contrastanti, come la tendenza alla violenza e la propensione alla cooperazione. Sebbene la nostra specie abbia ridotto alcuni comportamenti aggressivi grazie alla formazione di gruppi più coesi e meno violenti, la nostra storia evolutiva ha sempre mantenuto una spinta all'aggressività proattiva, soprattutto nei confronti degli altri gruppi. La nostra natura, dunque, è un equilibrio precario tra tendenze prosociali e distruttive, un equilibrio che è stato forgiato da centinaia di migliaia di anni di evoluzione e che continua a influenzare il nostro comportamento anche nelle società moderne.


(17/04/2025)

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