Il comunista
“Tenetelo presente: il partito non è fuori di noi, è noi, ciò che noi siamo dall’animale in su. Dalla pancia in su. Il partito ci comanda? È la nostra coscienza che ci comanda”.
L’onorevole Ferranini, il protagonista di questo romanzo, scritto da Guido Morselli tra il 1964 e il 1965, si trova catapultato dalla provincia modenese a Roma, dopo aver vinto le elezioni sotto il simbolo del PCI e aver messo piede in Parlamento (il “chiacchierificio”, come lo chiama Ferranini, uomo votato all’azione, alla lotta).
Il nostro comunista vive un’esistenza in linea con i propri principi, che sono poi i principi del partito. Si trova integrato nelle parole sopra riportate: in lui è il partito e il partito è la coscienza che lo comanda. Finché, un giorno, emerge entro la sua coscienza una bolla che non si integra con l’ortodossia, rivelando che in fondo la sua coscienza è semplicemente sua. Questa bolla ha la forma di una idea pericolosa: l’alienazione, che caratterizza il sistema capitalistico, non potrà mai essere superata — non lo sarà nemmeno nel futuro illuminato dal sole dell’avvenire, quando la rivoluzione sarà compiuta e si realizzerà la società comunista. Il motivo di tale convinzione sta qui:
“Siamo coatti. Lavorare, produrre, non è mai qualcosa di spontaneo, non è l’affermarsi di una nostra personalità, è soltanto una necessità, che non dà tregua. Difatti è la necessità di sopravvivere, di aprirci un varco, di trovare respiro, fra le forze estranee che ci premono tutt’intorno, che tendono a richiudersi su di noi. Vivendo, ci rendiamo conto ogni giorno che lavorare (e dunque soffrire) è una legge che ci è imposta dal di fuori. ‘Alienazione’? Io direi che non c’è modo di alienarci (ossia di perderci) fuori di noi. Il pericolo che ci incombe è il pericolo inverso, di essere soffocati dentro il nostro io dalla realtà che ci circonda, o ci assedia. Il rischio di non potere venire fuori dal nostro nocciolo di sostanza viva e cosciente, chiuso da ogni parte dalla ostilità (inerte o attiva) delle cose che gravano su di esso opponendosi al suo esplicarsi”.
In parole povere, siamo condannati alla sopravvivenza, al lavoro, e dunque alla sofferenza — la realtà ci schiaccia, e il “mestiere di vivere” consiste nel tenere aperto uno spiraglio per trovare quel poco di aria che ci consente di esserci.
Questa idea non piace al partito, chiaramente. Ma una volta resa pubblica, il partito non prende provvedimenti: Ferranini viene semplicemente richiamato all’ordine. Il partito non si preoccupa, non ha occhi per questo anonimo individuo che ingrossa le fila di Botteghe Oscure. Ma come? Perché non vengo punito come merito? perché non sono considerato?, si chiede Ferranini. Dunque, io non conto nulla? Ed è a questo punto che il romanzo ha una virata esistenzialista: il protagonista, dopo anni spesi in tale anonimato (in forza di un incredibile senso del dovere e fedeltà alla linea) decide di riprendere la propria individualità e di agire al di fuori del partito. E sono queste le pagine più belle, che rendono giustizia a un romanzo altrimenti prolisso, verboso, soffocante — respingente. Pagine in cui la bolla eccentrica cresce e si fa coscienza.
(15/05/2025)
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