La Torre Nera (libri V, VI, VII)
E dunque iniziamo dicendo che il quinto libro, “I lupi del Calla”, è in assoluto il mio preferito della saga. Più bello anche dell’ultimo (il quale, essendo l’ultimo, è straordinario di suo… dunque immaginate cosa possa essere il quinto!). Non entrerò troppo nel dettaglio: lo spazio e il tempo sono limitati, quindi mi concentrerò solo su alcuni temi. Ma prima non posso non dire che “I lupi del Calla” è un bellissimo omaggio ai “Sette samurai” di Kurosawa (un film che adoro), ci sono citazioni da Sergio Leone (tra l’altro appare un gatto chiamato Sergio) e da “Star Wars” (c’è un robot che assomiglia tantissimo a C-3PO), e ricompare anche un personaggio de “Le notti di Salem”, un libro di King che ho amato tantissimo (il Vegliardo del Calla altri non è che Donald Callahan). Credo che questo elenco sia sufficiente a motivare il mio entusiasmo.
“I lupi del Calla” ha anche un’altra particolarità: se i precedenti episodi della “Torre Nera” erano piuttosto lineari, qui siamo gettati all’interno di un vortice: si passa attraverso una serie di eventi che si snodano tra il mondo di Roland e il nostro (o meglio, la New York del 1977) e in tutto ho contato almeno cinque linee narrative principali. Ciò nonostante la lettura non provoca mal di mare, ma solo quella esaltazione che un marinaio può provare quando si trova a fronteggiare gli elementi della natura che lo sballottano e lo sospingono (avete presente la scena di “Forrest Gump” in cui il tenente/capitano Dan ulula glorioso contro la tempesta mentre si stringe rabbioso all’albero maestro della barca?); e ciò è possibile solo perché King sa tenere la barra dritta anche in acque perigliose e la lettura avanza inarrestabile nonostante i continui cambi di direzione.
Il sesto libro, “La canzone di Susannah”, è l’anello necessario che unisce “I lupi del Calla”, al volume conclusivo. Pur non raggiungendo il vertice fissato da questi due libri si mantiene su livelli decisamente alti. Il tema principale può essere riassunto nella seguente frase che, in qualche modo, tira le fila di quanto è stato seminato e raccolto lungo la storia:
“Che cosa ho fatto” era una domanda terribile. “Che cos’altro avrei potuto fare” era forse anche peggiore.
Inoltre, c’è un momento in questo libro che mi ha ricordato un altro film, “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, in cui un demone (dunque non un angelo) rinuncia alla propria immortalità pur di generare un figlio. E considerando il fatto che la madre è un demone, potete immaginare che razza di figlio abbia generato il suo disperato amore e come questa nascita possa influire sulle vicende e sulla possibilità di giungere alla Torre Nera da parte del nostro ka-tet. Al di là di questo (e dei soliti incredibili colpi di scena), si tratta di un libro che riflette molto sulla maternità, sul sacrificio genitoriale, sul rapporto madre/figli, ma anche sul ruolo paterno.
L’ultimo libro, il settimo, intitolato “La Torre Nera”, è semplicemente incredibile. Non solo perché finalmente sapremo se Roland riuscirà a raggiungere la Torre (la sua personale “balena bianca”) che tanto lo ha tormentato, ma anche e soprattutto per i tasselli che King ha cesellato e posizionato prima della conclusione del suo opus magnum. Di nuovo, non voglio raccontare la trama e non lo farò.
Tratterò ora di alcuni temi che a mio avviso meritano di essere messi a fuoco (ci sarà anche qualche critica).
Innanzitutto, nel post dedicato a “L’ultimo cavaliere” avevo presentato il personaggio di Roland come una sorta di Ahab che si trascina verso la sua preda; un Ahab privo di amore e per questo disperato; un Ahab che sacrifica il proprio Isacco. A lettura conclusa, posso confermare quella prima impressione. E veniamo dunque a quello che per me è uno dei difetti della storia (ma magari non lo è). Dunque, in precedenza (qui) avevo presentato la creazione del ka-tet da parte di Roland come una sorta di apertura all’altro, una disposizione amorosa del pistolero verso i suoi compagni. E tuttavia, la mia impressione è che King non sia riuscito a rendere questo legame amoroso in modo convincente: sembra che King si sforzi nel raccontare e mostrare questo amore, ma ai miei occhi esso non emerge; non emerge l’amore tra Eddie e Susannah, che pure si sono sposati e amoreggiano e si scambiano gesti, parole e pensieri d’amore; non emerge tra Roland e Jake, il quale a un certo punto chiama il pistolero “padre”. In poche parole, King dice che c’è amore, cerca di mostrarlo, ma alla fine io non lo sento. E mi chiedo: perché questo amore non emerge, considerando che il Re ha saputo narrare una bellissima storia d’amore, quella del giovane Roland e la affascinante Susan (v. “La sfera del buio”)? A mio avviso, non emerge perché l’ombra della Torre Nera si estende su tutto e tutti, e il ka-tet è ossessionato soltanto da una cosa: raggiungere questo obiettivo. E non è un caso se la storia d’amore tra Roland e Susan ha funzionato dal punto di vista narrativo, perché fino alla fine (o quasi, in realtà), Roland sembrava essersi dimenticato del ka e c’erano solo loro due. Ma per il resto, ogni personaggio avanza, libro dopo libro, quale simbolo di una ossessione che non cede completamente all’amore. Se nel quadro di Bruegel (v. qui) i due amanti si guardano amorevolmente indifferenti al mondo che li circonda, Roland Jake Eddie e Susannah avanzano col volto rivolto verso la Torre Nera. Essi sono sì abbracciati, ma ognuno guarda ossessivamente verso quell’oscuro oggetto del desiderio, e tutto il resto sembra sempre a rischio di essere sacrificato e lasciato indietro. Insomma, c’è qualcosa di freddo in Roland che finisce per riverberarsi tra tutti i componenti del suo ka-tet. Ma magari questo non è un difetto ed è proprio l’effetto cercato da King: se fosse così, chapeau!
Passiamo al secondo tema. Il mondo è andato avanti: il mondo della magia è stato sostituito dal mondo della tecnica al servizio dell’uomo, ma anche questo mondo è stato superato — la storia di Roland è ambientata in una terra disincantata, feroce, disumana, indifferente all’essere umano, fatta di un metallo che non nutre lo spirito e umilia la carne (non a caso questa terra è abitata da mutanti). Come detto nei post precedenti (v. “Terre desolate”), si tratta di un mondo che ha perduto le sue direttrici (i Vettori che sostengono l’intero universo stanno cedendo) e si appresta a sprofondare negli abissi delle tenebre. Nel nulla. In un certo senso, tale panorama ricorda “La storia infinita” di Micheal Ende: il nulla avanza, Fantàsia è prossima al suo annichilamento, e occorre un eroe. Non solo: occorre che qualcuno legga le gesta dell’eroe e lo faccia rivivere entro di sé. Abbiamo Atreiu, l’eroe, e Bastian, il lettore. Nella saga della Torre Nera le cose si alzano di livello: abbiamo sì l’eroe (anzi, gli eroi: Roland, Eddie, Susannah e Jake), ma abbiamo anche lo scrittore.
ATTENZIONE (possibile) SPOILER
Infatti accade questo: a un certo punto nella storia fa il suo ingresso lo stesso Stephen King, il quale avrà un preciso compito, che qui non menziono. Il risvolto di tutto ciò è che la storia narrata trabocca oltre se stessa per ricadere sulla biografia dello scrittore (dovrete leggere l’ultimo libro per capire cosa intendo). Non solo, ma se nella precedente recensione avevo rimproverato King di fare troppo ricorso al deus ex machina, la presenza dello scrittore nella storia svela il motivo di questo (a volte eccessivo) artificio narrativo. Ma forse ho detto troppo. Comunque sia,
FINE (possibile) SPOILER
Concludo questa recensione toccando un terzo e ultimo tema: i viaggi nel tempo e i paradossi che essi generano. Già nel secondo libro (v. qui) ci eravamo imbattuti in tre porte che si aprivano su un dove (New York) e un quando (anni Sessata, Settanta e Ottanta). Nei successivi episodi scopriremo altre porte (del tutto simili a quella che appare nello strepitoso romanzo “22.11.63”) che presentano un bel paradosso. In questo caso, tuttavia, il paradosso più che temporale è spaziale. In che senso? Beh, immaginate di oltrepassare una porta che vi conduce in un esatto punto del tempo e dello spazio: cosa accadrebbe se diverse persone la attraversassero? Faccio un esempio: nell’ultimo libro c’è una di queste porte che reca il seguente avviso: “Ford’s Theater, 1865. Venite a vedere l’assassinio di Lincoln”. Susannah si chiede chi mai vorrebbe andare a vedere uno spettacolo simile e Roland le risponde “in molti”. Ed è qui il paradosso spaziale: se molti decidono di andarci, anche se sono distribuiti nel tempo di partenza (ad esempio, uno ci va oggi, un’altro domani e così via), all’arrivo si troverebbero tutti a occupare un identico punto spazio-temporale e finirebbero così col sovrapporsi o schiacciarsi, perché lo spazio d’approdo (quello al di là della soglia) non può contenerli tutti. Pertanto una simile trovata, volendo essere coerenti, risulta impraticabile, sebbene si riveli strepitosa, almeno dal punto di vista narrativo.
Potrei parlare di molto altro, ma per quanto mi riguarda basta così. Aggiungo soltanto un’ultima noterella. Nel leggere le pagine finali ho avvertito quell’ansia, quella inquietudine che si provano quando si comprende di essere prossimi alla conclusione di un lungo viaggio, dopo che per giorni, anni, forse un’intera vita, non hai fatto altro che marciare immaginando quel momento. La stessa ansia e l’inquietudine che innervano domande del tipo: sarò all’altezza dell’obiettivo? E l’obiettivo che mi sono posto sarà all’altezza delle mie aspettative? E se dovessi inciampare un passo prima di averlo raggiunto? E che cosa sarà di me una volta che l’avrò raggiunto? La grandezza di questa saga (e di King) sta anche nel provocare simili emozioni — un colpo di coda che ti scuote a poche decine di pagine dalla fine.

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