Victorian Psycho, di Virginia Feito


Negli ultimi mesi ho avuto modo di leggere diverse recensioni che elogiavano Victorian Psycho (Mercurio, 2025) di Virginia Feito, a volte paragonandolo ad American Psycho. Avendo amato l’agghiacciante storia scritta da Bret Easton Ellis, non ci ho pensato due volte a prendere questo nuovo romanzo. Ebbene, lo dico subito: chi si aspettasse una sorta di American Psycho in salsa vittoriana rimarrà deluso. C’è ben poco, quasi nulla, della violenza reiterata, esibita, morbosa, studiata di Patrick Bateman; la gradazione splatter non è così alta, mentre la narrazione è solo a tratti disturbante. (Mi rendo conto che per molti lettori questa potrebbe essere una buona notizia.)

Dunque, sono rimasto deluso da questa lettura? No: non appena ho preso atto di questo equivoco e ristabilito nuove coordinate mentali per accoglierlo, ho iniziato a godermi Victorian Psycho, la cui scrittura (anche grazie alla traduzione di Clara Nubile) è piuttosto gradevole. Certo, non è un capolavoro (come può esserlo American Psycho, almeno a mio giudizio), ma è comunque un bel romanzo di cui consiglio la lettura.

La storia narra di una giovane istitutrice, Winifred Notty, che prende servizio presso la famiglia Pounds a Ensor House, una casa immersa nella campagna inglese. Qui dovrà istruire i piccoli Andrew e Drusilla, sotto lo sguardo vigile e piuttosto severo dei genitori. Ben presto la ragazza (che incarna l’io narrante) inizia a manifestare pensieri e azioni, per così dire, “malati”, che manderanno in frantumi la quiete familiare (sto edulcorando la vicenda).

Non appena mette piede a Ensor House, Miss Notty si imbatte in una serie di piastrelle che decorano il camino del salone principale. Vi sono raffigurate diverse scene bibliche:

In una di queste, Isacco si inginocchia su un altare mentre Abramo lo tiene per i capelli con una mano e con l’altra brandisce un coltello, pronto a massacrare il suo unico figlio in cima a una montagna. Un angelo, accennato a metà, è disceso dalle nuvole per posarsi sulla mano sollevata del patriarca. Studio l’espressione ebete inchiostrata di blu sul volto di Abramo. Pare deluso di aver ricevuto un compito dal suo Dio soltanto per vederselo strappare via. (Non stendere la mano sul ragazzo. “Ma adesso voglio farlo. Adesso ho maturato il bisogno di farlo”).

Si tratta di una riflessione che riassume il senso di questa storia: per Abramo, il peso più grande non è uccidere il figlio, ma trattenersi dal farlo nel momento in cui ne ha maturato l’intenzione. Allo stesso modo, il lettore percepisce, pagina dopo pagina, il bisogno di uccidere che si agita nella giovane istitutrice, e rimane in attesa, pagina dopo pagina, del fatidico passaggio dall’intenzione all’azione. Perché è presto chiaro: al di sopra di Miss Notty non ci sono angeli che possano fermare la sua mano. L’unica entità che ha sovranità su di lei è un mostro oscuro, un verme pallido che si agita nelle sue viscere: l’Oscurità. Un mostro che, in realtà, risiede e agisce in ognuno di noi.

In effetti, potremmo vedere in Winifred Notty una indagatrice dell’interiorità umana, capace di scendere nelle profondità delle persone, al di sotto dell’immagine rassicurante che queste propongono al mondo e a se stesse. In ognuna di esse si cela l’Oscurità, un predatore pallido e oscuro, simile a quei parassiti che vivono e crescono negli intestini degli animali. E così, la protagonista riconosce l’Oscurità che dimora inquieta nel suo corpo e in quello degli altri:

Sento un’Oscurità sbocciare dentro Mrs Pounds. Riesco quasi a immaginarla mentre si muove dentro di lei, le avvolge la grigia coda di gomma attorno alla gola, le strizza l’anima costringendola alla sottomissione.

La sua Oscurità [quella di Mr Pounds] odora di rovi e melassa e tabacco, come l’interno di una pipa.

In Viaggio al termine della notte, Céline ci suggerisce che gli uomini si sforzano per tutta la loro vita di apparire decenti, mascherando il mostro che essi sono*; allo stesso modo, tutti i personaggi di Victorian Psycho riescono a tenere a bada questo mostro. È il difficile compito che spetta a chiunque voglia vivere in società; un compito che la stessa Miss Notty ha dovuto far suo:

Dentro di me, l’Oscurità riposa nella gabbia toracica, un animale imprigionato che è diventato apatico perché è stato addomesticato.

Se le persone “normali” soffocano il mostro senza tuttavia poterlo sopprimere (in Mr e Mrs Pounds il mostro si rivela di sfuggita quando si tratta, ad esempio, di imporre punizioni crudeli a Drusilla e ai domestici), la giovane istitutrice ne ha invece cura. Miss Notty ha insegnato al “suo” animale ad attendere: il lettore capisce che prima o poi la gabbia verrà aperta e l’Oscurità sarà libera di agire. E (forse) vedrà in questa liberazione un atto di sincerità: la maschera cade e ci si mostra per quello che si è.

C’è una seconda scena che credo si possa accostare a quella di Abramo. Durante una passeggiata nella tenuta, Winifred, Andrew e Drusilla vedono un cerbiatto accoccolato sul prato. Si avvicinano silenziosamente. Sembra morto, ma poi si accorgono che è vivo: forse stava solo dormendo. A quel punto Miss Notty fa qualcosa di inaspettato (come se avesse deciso di aprire la gabbia del mostro per farlo giocare):

Lo colpisco alla testa con un masso. Lo colpisco più volte, mi bruciano le braccia per lo sforzo, lo colpisco ancora [omissis, a giovamento dei lettori più sensibili].
“Quando vi imbattete in un animale sofferente, ucciderlo è la cosa più misericordiosa che possiate fare”, dico poggiando il sasso con una delicatezza riservata alle porcellane più preziose.
I bambini abbassano lo sguardo sul capriolo, sulle viscere che chiazzano la roccia [omissis, come sopra].
“Ma non sembrava… soffrire…”, protesta flebilmente Andrew.
“Oh, ma soffriva”, replico. “Sì che soffriva”. Mi pulisco il sangue dalla guancia con il dorso della mano. “Tutte le creature viventi soffrono”.

Tutti i viventi soffrono. Ma anche: tutti i viventi sono crudeli e fanno soffrire. Nessuno è innocente. E questo vale, a maggior ragione, per le creature più crudeli e sofferenti: gli uomini. E le donne. La crudeltà umana in Victorian Psycho non ha sesso. Al limite, ci sono differenze nel dissimulare la crudeltà e la violenza, ovvero nel negarle ai propri occhi e dunque nell’esercitarle in malafede. Differenze codificate a seconda del genere e della classe sociale di appartenenza. Vorrei insistere un poco su quest’ultimo punto.

La borghesia, con i suoi complicati rituali sociali, le sue etichette (che nell’Età vittoriana si esasperano), le sue illusioni di purezza che la convincono a essere sempre nel giusto, è semplicemente più ipocrita nel fingere di non essere ciò che tutti sono (crudeli e sofferenti). La rappresentazione meglio riuscita di questo spettacolo è offerta attraverso la messa in scena di un pantagruelico pranzo di Natale (in questa occasione, la famiglia Pounds ospita alcuni amici, tutti esponenti dell’alta società inglese). Il contrasto tra decenza e indecenza, tra moderazione ed eccesso, tra simulata gentilezza ed effettiva violenza è evidente: la tavola è circondata da bocche voraci che ingurgitano ogni tipo di animale (nato e cresciuto solo per soddisfare quella fame feroce): maialini da latte, manzi, buoi, pecore, cigni, anitre, tacchini, allodole, ostriche, gamberetti. Tante bocche imbellettate, ma irrimediabilmente insanguinate. Insomma, una sorta di grande abbuffata in cui si rende evidente che la violenza riguarda anche chi si ostina a non riconoscerla in sé e a considerarsi innocente, per il solo fatto che le sue mani non hanno tirato il collo alla sventurata creatura finita sul suo piatto.

Occorre sottolineare che la tavola imbandita è una metafora e che non si sta parlando soltanto di cibo? Il mondo stesso è un’enorme tavola imbandita, mentre la società che abbiamo edificato si premura di indicarci il posto a noi assegnato: c’è chi ha la fortuna di trovarsi seduto dalla parte giusta (o meglio, quella conveniente), mentre altri si trovano stesi su un vassoio da portata. Troppo radicale? Eppure, per prendere coscienza di tale condizione basterebbe pensare al sangue che macchia lo smartphone che teniamo svogliatamente in mano mentre scriviamo (io) o leggiamo (voi) queste parole. Ma anche se ne prendiamo coscienza, dopo qualche minuto (o qualche ora) ce ne siamo già scordati. È un “felice” oblio che ci consente di non impazzire e affrontare la quotidianità e i nostri problemi personali. Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!

Lungi dall’elevare Miss Notty a figura eroica e ribelle da imitare, il romanzo sembra piuttosto suggerire al lettore, turbato da tanta violenza, che non è più innocente di Miss Notty. E che i sofferenti (disturbati e non) sanno vendicarsi.

Concludo questa recensione segnalando una cosa che mi è piaciuta e una che non mi è piaciuta di questo romanzo. Partiamo dalla prima. 

Lo sguardo della protagonista è costantemente velato dalla sua immaginazione, che le fa vedere una realtà alternativa, futura o possibile (“le ombre delle cose che saranno o che potrebbero essere”), per cui il lettore ondeggia tra lucidità e incubo (eh sì, la realtà alternativa è invariabilmente drammatica: coltelli che tagliano gole, o fiamme che avvolgono stanze) e a volte si trova a chiedersi se quanto sta accadendo sia reale o soltanto immaginato. Questa parte, a mio parere, funziona piuttosto bene. Quello che non funziona, sempre a mio parere, è semmai il modo in cui sono gestite alcune sequenze che avvengono sul piano della realtà fattuale.


⚠️ ATTENZIONE SPOILER! ⚠️


Fermatevi qui se non avete letto il libro, 

altrimenti vi rovinate il finale!

⚠️ ATTENZIONE SPOILER! ⚠️


A parte i crimini commessi nel corso della storia, che non vengono mai scoperti (ma il dubbio che siano immaginati mi fa soprassedere), il vero problema si presenta quando, a un certo punto del romanzo, Miss Notty si trova a uccidere un buon numero di persone, ed è incredibile come ciò avvenga con estrema facilità, quasi si trattasse di uccidere dei lemmings rincoglioniti. Ora, sicuramente le vittime sono sorprese e terrorizzate, ma Miss Notty non è Rambo e non gira per la casa con un fucile d’assalto. L’unica spiegazione è che anche queste uccisioni siano avvenute sul piano dell’immaginazione (“non mi resta che chiedermi se non sia stato tutto un sogno”), ma, a parte la frase che ho appena riportato tra parentesi, non ci sono validi indizi a suggerirlo. 


FINE SPOILER 

Per concludere, al netto del difetto sopra segnalato, il libro mi è piaciuto. In estrema sintesi, ciò che Victorian Psycho mette davvero in discussione non è la realtà della violenza, ma la nostra ostinazione a considerarla un’eccezione. L’Oscurità risiede in ognuno di noi.



28/12/2025


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* “La gran fatica dell’esistenza non è forse insomma nient’altro che questo gran darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant’anni, o più, per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi” (L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, p. 459).

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