Empusium, di Olga Tokarczuk

 


Ambientato nei primi anni del Novecento, Empusium (Bompiani, 2025) è un romanzo che inizia come un inquieto omaggio alla tradizione mitteleuropea (in particolare alla Montagna incantata di Thomas Mann), con le sue valli chiuse da catene montuose, i sanatori e gli uomini malati che si perdono in discussioni interminabili. Ben presto, tuttavia, la storia si trasforma lentamente in qualcos’altro: attraverso una prosa che, pagina dopo pagina, si apre ad atmosfere perturbanti (sempre suggerite più che esibite), prende corpo una riflessione sul rapporto tra l’essere umano e la natura. Un rapporto che l’autrice, Olgar Tokarczuk, mostra soprattutto attraverso i dispositivi culturali che l’uomo ha approntato per difendersi da essa: in primis la medicina, ma anche i miti folklorici (e i rituali a essi associati) e… il patriarcato.

Tokarczuk mette in scena un microcosmo completamente maschile. La vicenda è ambientata in un pensionato per soli uomini. Intorno al protagonista, il giovane e taciturno Wojnicz, si raduna un gruppo piuttosto eterogeneo (per età, professione e visione del mondo), che passa il tempo a dibattere di filosofia, politica e morale. La sola cosa che li accomuna, oltre al sesso e al desiderio di spiegare e catalogare l’intero esistente, è la loro convinta misoginia. L’idea funziona molto bene: uomini malati, deboli, fragili, che si fanno forza tra loro disprezzando le donne, ritenute (guarda caso) inferiori, subdole, ingannatrici, pericolose.


Wojnicz ascolta, riflette, ma non si unisce al coro. In effetti, sembra un alieno all’interno di questo gruppo. Manca di virilità e appare delicato, poco maschio: non tanto nell’aspetto quanto nello spirito, o almeno così lo giudicano i suoi compagni di sventura (tra cui Thilo, suo coetaneo: “Sei una creatura innocente…”) e il medico che lo ha in cura. È circondato da uomini che pensano e parlano “da maschi”, e non gli resta che osservare quello spettacolo, ingoiando il boccone amaro dei giudizi che gli rivolgono (“Sii un uomo, non una femminuccia!”). Fin dall’inizio, il protagonista sembra l’“innocente” che il sistema maschilista vorrebbe “formare” (ad esempio, quando Lukas, insegnante e cattolico tradizionalista, tenta di convincerlo ad andare a prostitute per “iniziarlo” alla vita adulta).


Come reagisce Wojnicz? Lo si è detto: è spaesato, si sente inadeguato, fuori posto; e il suo corpo risponde con un senso di nausea (per aver bevuto troppo o per l’alimentazione), come se quel luogo, così malato, lo stesse intossicando. Altro che soggiorno di cura! Wojnicz comprende presto di essere finito in un posto che mortifica.


Perché questa digressione? Per mettere a fuoco il patriarcato quale dispositivo che dovrebbe difenderci dalla natura. Riprendiamo dunque da qui: l’uomo è spaventato dalla natura. Non già perché essa è malvagia (sebbene egli tenda a rappresentarsela così, ad esempio nelle fattezze dell’Empusa, una creatura mitica, divoratrice di uomini, che continua a cambiare forma; da cui il titolo del romanzo); la natura lo spaventa perché è indomabile e opaca: sfugge a definizioni, categorie e controllo.


Per proteggersi dall’angoscia dell’ignoto, l’uomo costruisce ordine e dominio. Logica, gerarchie, rituali, norme culturali: tutto serve a ridurre la complessità del reale a schemi prevedibili. Sono costruzioni però illusorie e fragili. Più l’uomo cerca di controllare, più rivela la sua impotenza di fronte a ciò che non può dominare.


Tra le varie strutture difensive, Tokarczuk mette sotto la lente il patriarcato, visto come un dispositivo che pretende di organizzare il mondo secondo canoni rigidi. Attraverso esso, l’uomo crede di avere “potere”, e tuttavia questo ordine è fittizio: serve a proteggere dall’angoscia (Ernesto De Martino direbbe che questa sorge dal “rischio di non esserci”, di soccombere alla natura), ma finisce per generare violenza, irrigidimento e, come si vede nel romanzo, malattia. Il patriarcato non opprime solo chi non rientra nei suoi schemi (le donne, in primis, e chiunque manchi di virilità), ma è autodistruttivo: consuma anche chi lo abbraccia e si conforma alle sue regole.


Wojnicz non corrisponde ai canoni di mascolinità del gruppo e non si sottomette ai rituali del patriarcato, ma sfida, con la sua sola presenza, il sistema di potere che vorrebbe assorbirlo. Egli incarna la diversità che tenta di resistere al sistema — quel sistema che, per salvare l’uomo da una alterità minacciosa, finisce con l’annientarlo. E dunque, ce la farà il nostro “eroe”? Bisognerà arrivare in fondo al romanzo per saperlo.


Prima di concludere, vorrei dire qualcosa sullo stile. Olga Tokarczuk è capace di creare con disinvoltura quello che chiamerò “effetto Szymborska”: toccare un nervo dell’anima con immagini semplici, persino banali. Per esempio, nei primi capitoli Wojnicz si imbatte nel cadavere di una donna. È distesa sul tavolo della sala da pranzo della pensione. La riconosce: è la cameriera che poche ore prima aveva incrociato di sfuggita. Il suo sguardo si posa sulle scarpe: ben allacciate, stringhe tirate, fiocco stretto con cura. Wojnicz immagina l’impegno che la donna ha messo in quel gesto, e in quel momento emerge (simile a un’epifania) la mancanza di senso che vanifica l’ordine e lo scopo che cerchiamo di imprimere alla nostra vita. Un paio di scarpe ben allacciate e… tac! Nervo toccato.


D’altra parte, sempre per quanto riguarda lo stile, ci sono anche aspetti che ho trovato irritanti (valutazione, questa, del tutto soggettiva). La voce narrante esce spesso dal racconto, passando dal passato al presente, per rivolgersi direttamente al lettore (“Adesso la nostra attenzione è attratta da…”, “No, non crediamo che la sua sia un’ossessione…”). È una scelta legittima (e verso la fine del romanzo anche giustificata), ma non mi piace, perché interrompe l’immersione nella storia. Inoltre, diverse parti risultano ripetitive, quasi si trattasse di allungare il brodo (penso in particolare alle estenuanti discussioni che, a differenza di quanto accade nella Montagna incantata, risultano poco ispirate). Ma parte questo, il romanzo è ben scritto (d’altronde, stiamo parlando di un premio Nobel).


In definitiva, Empusium è un romanzo che scava nelle nostre strutture difensive (culturali, simboliche, sociali) e mostra quanto esse possano diventare gabbie invece che ripari. Ed è questo, in fondo, ciò che si chiede a un romanzo: disturbare, illuminare, disinnescare certezze.


29/11/2025

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