Dungeon Crawler Carl, di Matt Dinniman
Dopo aver letto tutto d’un fiato le prime pagine di Dungeon Crawler Carl (Mercurio, 2025), buttai giù una semplice nota: “Un libro ignorantissimo, il più ignorante che abbia mai letto. Ma forse anche uno dei più divertenti.” Pensavo che non avrei aggiunto altro, riservandomi di non scrivere una recensione ma, al massimo, una segnalazione da pubblicare sui miei canali social. Poi, arrivato a metà libro, mi ritrovai con un bel po’ di appunti accumulati. E dunque, ecco la mia recensione.
Innanzitutto, di cosa parla questa storia? In breve: il mondo è finito. Letteralmente. Un’entità aliena trasforma la Terra in un gigantesco dungeon multilivello, un reality show intergalattico seguito da miliardi di spettatori. I pochi superstiti (tra cui Carl, protagonista per caso, e la sua gatta Donut, improvvisamente parlante e sensibilissima al giudizio del pubblico) vengono catapultati dentro questa struttura letale. Devono sopravvivere, livellare e possibilmente non perdere la propria umanità, mentre il sistema li spinge a uccidere, competere, intrattenere. È grosso modo una battle royale cosmica che incontra Dungeons & Dragons, filtrata attraverso i meccanismi dei social (gli sciagurati protagonisti hanno profili che tengono il conteggio di follower e visualizzazioni).
Il libro rientra nel genere LitRPG (narrativa che si basa sui giochi di ruolo). Per quanto mi riguarda, però, l’ho messo nella categoria “romanzo che divori nel giro di pochi giorni” (nonostante le 630 pagine).
Leggendo, mi sono venuti in mente alcune opere forse improbabili: il Faust di Goethe, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, Se questo è un uomo di Primo Levi, Le città invisibili di Calvino, La strada di Cormac McCarthy. Dico “improbabili” perché immagino che l’autore non abbia letto Goethe, Schopenhauer, Levi e Calvino. Magari sbaglio, ma credo che si sia alimentato soprattutto di videogiochi (i riferimenti a Diablo e World of Warcraft, per citare quelli che conosco, sono evidenti), giochi di ruolo, serie TV (da Black Mirror a Squid Game) e letteratura fantastica. Ripeto, magari sbaglio, ma questa impressione mi permette di intuire una cosa: anche i media popolari offrono spunti di riflessione sulla realtà e su se stessi e, nel farlo, dimostrano di non essere affatto inferiori (o comunque non troppo inferiori) ai grandi classici della letteratura, che semmai spiccano per la forma e per la qualità dello stile narrativo.
Ora, perché questi riferimenti improbabili? Se nel Faust e nel Mondo come volontà e rappresentazione la vita è un calderone in cui le forme viventi ribollono, nascono, si divorano e periscono; se nel capolavoro di Levi emerge (in modo tremendo e inarrivabile) il concetto di mors tua vita mea (lo so, sto banalizzando), così il mondo messo in piedi da Matt Dinniman è un grande e folle macello. Qui gli esseri viventi (umani, animali, mostri e alieni) si uccidono a vicenda per rimanere in vita, sotto la supervisione degli autori del format e dei miliardi di spettatori che assistono alla mattanza.
Inoltre, autori come Levi, Calvino (si pensi alla abusatissima citazione delle Città invisibili, “L’inferno dei viventi…”, da anni onnipresente sui social) e il McCarthy de La strada ci mostrano la possibilità di resistere a un simile destino, indicando in questa resistenza l’unico modo per rimanere umani. E forse (anzi, ne sono abbastanza sicuro) Dinniman La strada la conosce, magari anche solo tramite il bellissimo film di Hillcoat. Consideriamo, ad esempio, questo breve scambio tra Carl e la gatta Donut:
“Non ci sono brave persone, non da queste parti. Sono solo squali e pesciolini.”
“E noi cosa siamo?”
Non risposi. Non potevo.
Squali o pesciolini. Carnefici o vittime. Cattivi o buoni. Il conflitto interiore di Carl (che esplode dopo aver piazzato una bomba in una stanza del dungeon, scoprendo che tra le vittime c’erano anche bambini di goblin) ricorda la stanca, sfiduciata volontà che tiene in vita il Padre e il Figlio de La strada:
“Noi siamo ancora i buoni?”
“Sì. E lo saremo sempre.”
Essere buoni significa restare umani, non cedere al piacere della violenza, non lasciarsi trascinare da quelle forze che pure ci abitano e possono mandare in frantumi quei valori che, in tempi normali, sono alla base della nostra vita: altruismo, compassione, gentilezza. E per smarrire la propria umanità non serve un trauma enorme, basta pochissimo. Se è vero che lo sguardo altrui può rafforzare la nostra moralità, è altrettanto vero che uno sguardo diverso (ad esempio quello di un pubblico televisivo) può indebolirci, portandoci ad agire come mai avremmo fatto.
“Dobbiamo saccheggiare tutto quello che possiamo”, dissi guardandomi intorno. “Tutto.”
“E poi uccidiamo il loro boss, giusto?”
Guardai la porta. L’ultima volta che avevamo combattuto un boss avevo dovuto ammazzare a pugni una donna spaventata. Non avevo idea di cosa ci fosse dietro quella porta, ma le creature di guardia in quell’area erano significativamente più forti di quelle che sorvegliavano la tana del boss precedente. Sarebbe stato stupido entrarci. Davvero, davvero stupido.
Inoltre, sarebbe stata la mossa più stronza del mondo, dopo che ci avevano aiutato.
“Sì, uccidiamo il loro boss”, dissi.
Donut saltellò su e giù, agitando la coda. “Stiamo per fare dell’ottima televisione.”
A un certo punto mi sono chiesto cosa accadrebbe se il mondo de La strada fosse ripreso da videocamere e seguito da spettatori. Se i sopravvissuti potessero avere follower, visualizzazioni, sponsor, e se il loro destino dipendesse anche da questo. Cambierebbero le loro azioni? Cercherebbero di piacere al pubblico? E soprattutto: riuscirebbero a rimanere “i buoni”, non tanto agli occhi del pubblico, ma agli occhi della propria coscienza? Ecco, in Dungeon Crawler Carl questa domanda non è un esercizio mentale: è letterale.
Giungiamo così a un secondo tema, che mi pare altrettanto centrale: la critica alla società in cui viviamo. Lo affronto con prudenza, visto che nel romanzo leggiamo:
“Non ogni cosa ha sempre una critica sociale dietro.”
“Molto spesso sono stupidaggini,” borbottai.
“È intrattenimento,” disse Mordecai.
Non credo che questo romanzo sia solo intrattenimento, per quanto sia straordinariamente divertente. Tutt’altro: Dungeon Crawler Carl ci proietta in modo iperbolico nelle acque della nostra quotidianità.
Il mondo dei social (sono queste le acque di cui parlo) ci accoglie entusiasticamente in uno spazio costruito “da persone che non ci vogliono bene, ma vogliono i nostri soldi” (sto citando le parole che David Foster Wallace rivolge al sistema dell’intrattenimento televisivo, ma che ben si adattano a questo contesto). Ci offre un appagamento immediato, ma ciò che troviamo sul piatto non ci nutre: è junk food gustoso, che però alla lunga ci intossica (anche questa è un’immagine di DFW). Cosa ci rimane dopo ore passate a scrollare? Un bel nulla, anche quando l’algoritmo ci propone il meglio che ha da offrire: libri, cinema, critica sociale.
Ed eccoci di nuovo al “molto spesso sono stupidaggini”: non tanto per il contenuto, quanto per la forma. Una forma che semplifica, banalizza, suscita emozioni rapide senza lasciare spazio alla riflessione. Ma è coerente con la logica del mezzo: si mette un like, si scrolla e si passa oltre, ad libitum bulimicum. E cosa rimane a chi produce compulsivamente questi contenuti? Visualizzazioni, monetizzazione, follower. Ma niente di più: nessuna crescita, nessun miglioramento personale. Anzi, il rischio di esporsi in queste vetrine virtuali è anche peggiore.
“Uccidere con stile? Ma sei seria?”
Ma Donut non rispose. Non mi aveva sentito. Stava sul bordo del cuscino, su quattro zampe, impettita come quel cazzo di re leone; il petto le si gonfiava d’orgoglio mentre guardava la massa oleografica di fan adoranti. Le brillavano gli occhi. Improvvisamente provai un senso di terrore. Quello sguardo e quella fame erano pericolosi. Ne aveva avuto solo un assaggio, ma lo avevo già capito: ne era dipendente, dalla folla, dagli applausi. Sarebbe stato un problema.
“Maledizione, Donut”, borbottai.
Sarebbe facile pensare a piattaforme come OF oppure a certi streamer di Twitch e TikTok. Non sono poche le persone che, attirate dal richiamo della notorietà e dei soldi facili, entrano in questo meccanismo che le porta a spingersi sempre più in là, giorno dopo giorno, trovandosi infine a fare cose che mai avrebbero fatto quando avevano iniziato — e trovandosi, oltre al denaro in tasca (ma questo vale solo per una percentuale minima di creator), una costellazione di ferite e rimorsi. Il fatto è che in questo gioco non c’è la possibilità di resettare e ricominciare da capo: les jeux sont faits. E se non hai la forza di continuare, se a un certo punto crolli, tanti saluti e avanti il prossimo. C’è sempre qualcuno pronto a prendere il tuo posto.
D’altra parte, credo che tale meccanismo (lo ripeto: progettato da persone che non ci vogliono bene) si applichi anche in contesti apparentemente innocenti. Consideriamo, ad esempio, chi su IG o FB parla di libri. La forma comunicativa è spesso la seguente: un breve video o un testo di poche righe in cui si sintetizza il contenuto, corredato da giudizi vaghi ma roboanti (“stupendo!”, “sconvolgente!”, “mi ha cambiato la vita!”, ecc.). Poche decine di secondi e il bravo creator passa subito a un altro libro (“profondissimo!”, “una vera rivelazione!”). E mi chiedo: cosa gli è rimasto dei libri che ha letto (se li ha davvero letti) preso com’è da questa foga comunicativa, dalla fretta di parlarne? Temo ben poco. E allora non c’è differenza tra occuparsi di romanzi, ricette, attivismo o foto in costume: l’importante è avere contenuti da smerciare in serie per riuscire a scalare la vetta delle visualizzazioni. E così vengono meno l’altruismo, la compassione, la gentilezza, non solo verso gli altri ma anche verso se stessi. Produci, consuma, crepa.**
Forse queste che mi sto facendo sono tutte seghe mentali; forse davvero Matt Dinniman voleva soltanto scrivere un romanzo ignorante e divertente, e basta. D’altra parte, Dungeon Crawler Carl, di spunti su cui riflettere (con intenzione o senza), ne offre parecchi, se non si è stati vinti dalla pigrizia, se non si è già crepati per aver troppo prodotto e troppo consumato.
08/12/2025
PS. Questo romanzo non è auto conclusivo: si tratta del primo capitolo di una serie che al momento conta sette volumi. Che dire? Non vedo l’ora che esca la prossima traduzione. Can’t wait.
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* Vedi l’intervista a David Foster Wallace contenuta in David Lipsky, Come diventare se stessi, minimum fax, p. 153.
** Se qualcuno si fosse scandalizzato per l’accostamento tra Se questo è un uomo e Dungeon Crawler Carl, probabilmente ora rimarrà di stucco (e me ne scuso). Ma c’è un passaggio nel libro di Levi che rappresenta un grandissimo insegnamento di resistenza culturale nei confronti del sistema (di ogni sistema) che minaccia la nostra umanità. Mi riferisco all’episodio in cui Levi e un prigioniero francese, Pikolo, discutono della Commedia di Dante: è un momento commovente perché, dietro l’esercizio di rammemorazione e interpretazione dei versi danteschi, si cela anche questo messaggio: ciò che resta nella nostra vita (e che, restando, dà significato al nostro esser qui, per quanto il “qui” possa essere tremendo e assurdo) è il frutto di un lavoro lento, profondo, accurato. L’esatto contrario dell’attività meccanica e anonima alla quale ci costringe la logica dei social. Portare lentezza e profondità nel regno della velocità e della superficialità è, in tal senso, una forma di resistenza (ovviamente con le debite proporzioni) — è un altro modo di “restare umani”.

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