Le nostre vite sottosopra
Prendo Le nostre vite sottosopra (Rizzoli 2025) della scrittrice americana Jandy Nelson dopo aver letto una breve recensione su IG che ne elogia la freschezza, la qualità di scrittura e la forza immaginativa. “È ciò di cui ho bisogno!”, mi dico (ho da poco concluso la saga de La Torre Nera di King e sento la necessità di qualcosa di leggero). Inizio a leggere, ma dopo qualche pagina ho già la tentazione di chiudere il libro e gettarlo nel detestabile mucchio dei “Libri Fregatura”.
In questa nota spiegherò il motivo della mia iniziale avversione e come ho finito per adorare questo libro.
La storia si concentra su una famiglia che vive a Paradise Springs (una cittadina californiana): un padre assente (fuggito per motivi ignoti), una madre che prepara soufflé talmente buoni da far innamorare le persone, e tre fratelli, Wynton, Miles e la piccola Dizzy (si chiamano come i noti trombettisti jazz). Wynton è un punk, ma suona il violino, e lo suona così bene che lo stesso Paganini scenderebbe a patti con lui pur di impossessarsi della sua abilità. Miles, detto “il Perfetto”, oltre a essere bellissimo, intelligentissimo e bravissimo negli sport, parla telepaticamente con i cani. Dizzy è una bambina esplosiva, gioiosa anche quando è triste, e tra le altre cose vede dei fantasmi muti che appaiono nel vigneto davanti a casa. Nel giro di pochi capitoli, i tre fratelli fanno la conoscenza di una ragazza, Cassidy, con i capelli arcobaleno, che metterà sottosopra la vita di questa famiglia straordinaria.
Il mio problema iniziale stava proprio qui: in questa famiglia (comprese le persone che vi gravitano attorno) sono tutti dannatamente speciali. Giusto per capirci, mi sembrava che l’autrice avesse preso La casa degli spiriti di Allende per estrarne un distillato (che chiamerò “Personaggio Più Speciale Del Mondo”) da iniettare a dosi spropositate in questa storia. Insomma, mi erano bastate poche pagine per prospettarmi un’overdose di caratteri mielosi con tutti i rischi del caso (glicemia sballata e diffusione di carie dentaria).
Dunque, cosa mi ha fermato dal gettare il libro nel mucchio dei “Libri Fregatura”? Presto detto: Jandy Nelson sa scrivere davvero bene. Ma, in sé, questo non sarebbe stato sufficiente a farmi continuare la lettura. Jandy Nelson sa scrivere bene e sa come costruire una storia. Voglio essere ancora più preciso: Jandy Nelson, con la sua scrittura leggera e ritmata, conduce il lettore in un regno di nuvole sopra il cielo, là dove osano i Mini Pony, salvo poi rivelare di averlo condotto in direzione opposta, ossia nelle profondità del suo animo. Ora, non fraintendetemi: non voglio dire che i Mini Pony siano in realtà eroi tragici mascherati, perché non è così. Ma forse alla fine di questa nota capirete che cosa intendo.
“Forse è possibile vivere le nostre vite senza credere nel destino, senza sentirlo agire nelle scelte che facciamo o in quelle che altri fanno per noi. Ma senza di esso sembra impossibile raccontare le nostre storie. Le storie danno struttura alle nostre vite, e quella struttura è il destino.”
Ho detto che Jandy Nelson sa come costruire una storia. Ebbene, leggere questo romanzo è come vedere un puzzle che, pezzo dopo pezzo, si compone sino a rivelare l’immagine completa della realtà. Un’immagine (un disegno, un destino) che, fino a un momento prima (quello della posa dell’ultimo pezzo), appariva sfuggente e incomprensibile. L’immagine di una famiglia come molte che, per anni, ha convissuto con buchi, mancanze, assenze. In effetti, uno dei temi principali è quello dell’abbandono. (Non so se consigliarne la lettura a chi ha sofferto a causa di figure scomparse o moralmente assenti in ambito familiare… ma forse sì, lo consiglio, anche se potrebbe toccare ferite sensibili e provocare il pianto, nonostante i Mini Pony.) Dicevo: l’immagine di una famiglia che ha convissuto con buchi, mancanze, assenze, che piano piano, a volte in modo sorprendente (con un effetto da “Carramba che sorpresa!”), si colmano a rivelare la verità. (In effetti un’altra caratteristica del romanzo è questa: qui gli adulti tendono a nascondere la verità ai propri figli, per diverse ragioni legate al loro particolare vissuto; ed è questo che fa dei figli degli “eroi tragici” che brancolano nel buio, incapaci di vedere i fili familiari che li manovrano e su cui inciampano).
Oltre al tema dell’abbandono, ma in connessione a questo, Le nostre vite sottosopra mostra quanto siano pericolose le relazioni, quanto dolore porta con sé l’amore e il pericolo (in un certo senso mortale) dell’uscire da se stessi per darsi all’altro. Ma suggerisce anche questo: che se non si esce da se stessi si vive come morti, perché il nostro corpo, quando si isola o fa scendere le grate intorno al proprio cuore, diventa una bara per la nostra anima (si parla per metafore, eh). E allora, l’amore può comportare errori, sofferenze e a volte disperazione, ma è anche il solo farmaco che può salvarci da una putrefazione precoce. Tutto troppo romantico (eccoci ai Mini Pony di cui sopra)? Forse. Ma se chi scrive sa scrivere dannatamente bene, ben venga. A me questo romanticismo ha fatto bene.
27/09/2025

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